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Vincenzo Pipino, ladro gentiluomo - Un ritratto fotografico di un’altra epoca

L’ho conosciuto per la prima volta durante un servizio per Gioia, poi ancora per GQ. Mi accolse con un sorriso appena storto, un po’ da film francese anni ’60. Il tempo, su di lui, scorreva come sulle pietre veneziane: lentamente, senza cancellare nulla. Vincenzo Pipino non è solo un nome che a Venezia conoscono tutti. È un modo di attraversare la città – e la vita – in punta di piedi, con un rispetto quasi teatrale per ciò che è altrui, eppure anche un po’ suo.
Dei suoi settant’anni, venticinque li ha passati in carcere. Sempre per furto.
Ma parliamo di un altro tipo di ladro: un ladro che si muove sui tetti più che tra le calli, che davanti a un Canaletto in una stanza buia si commuove, lo prende sottobraccio e dice: “Sembrava che mi pregasse di portarlo via”.
Il furto, per lui, non è mai stato un gesto violento.
“Al derubato devi sempre dare una possibilità di reazione, altrimenti è sopraffazione”, mi disse mentre sistemava le maniche di una camicia ben stirata, come se fosse lì il confine tra eleganza e criminalità.
Ha una cultura sconfinata, soprattutto in storia dell’arte.
Potrebbe tenere conferenze, invece ha scelto un’altra strada. Una strada notturna, solitaria, silenziosa. Non per soldi, dice, e forse non mente. Vive ancora alla Giudecca, in un alloggio popolare, senza ostentazione. Avrebbe potuto essere milionario, ma ha preferito restare leggenda locale, fantasma cortese di salotti e palazzi pieni di polvere e troppi allarmi.
Me lo ricordo, con tono secco ma pieno di meraviglia, raccontare di una casa talmente sporca da fargli buttare i calzini appena uscito.
“E poi li vedi lì, quei signori, per strada… Tanta boria, e non si lavano nemmeno.”
Una battuta? Forse. O forse un codice d’onore tutto suo, più antico della cronaca.
Nella mia fotografia cerco sempre quello che sfugge: lo sguardo prima del gesto, il silenzio tra due parole, la storia che non è stata detta. Con Pipino ho avuto il privilegio di raccontare una Venezia segreta, quella dei tetti e dei quadri che chiamano per nome.
Un uomo d’altri tempi, un Cary Grant che ha letto troppo Simenon e un po’ di Machiavelli, ma che ha saputo attraversare il crimine con un’idea personale di eleganza: quella di non fare mai male a nessuno, e di sparire lasciando una storia da raccontare.
 
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